Netflix sperimenta e propone nelle sue produzioni davvero aria fresca. Ad esempio: Game Over Man pur proponendosi come una comedy demenziale è pieno di splatter e perfino nudi maschili. Punta a trame, cast e registi davvero controcorrente, e questo è il suo punto di forza. Mediamente la recitazione è sempre buona e anche questo fattore non è da sottovalutare.
The Open House poteva quindi essere una occasione per regalare un “Home invasion” particolare, ma purtroppo scade molto presto in una serie di cliché, che vorrebbe evitare proprio per tentare di essere sobrio e con una tensione costruita lentamente, ma invano. Occhio a proseguire, cerco di non dare spoiler, ma qualcosa si capirà comunque… anche se in realtà i personaggi stessi spoilerano tutto a 10 min dal film. Si parte con un dramma familiare tutto sommato convincente, ma non avvincente, per proseguire con una trama prevedibilissima fin dai primi minuti. Alla lentezza della prima ora, si sommano quindi scontate sequenze di suspense, a cui si vuole rimediare con un ultima mezz’ora horror sadica che però sembra messa lì a caso, quasi solo per stupire, e… cosa peggiore, sostenuta dal nulla: l’assassino è davvero un personaggio di passaggio, casuale, di cui in fondo non ci frega nulla, così come non ci frega dei personaggi di contorno che dovrebbero servire per creare dubbi e un alone di mistero ulteriore, ma invece diventano solo macchiette. Parliamoci chiaro, in molti horror dell’assassino sappiamo poco e nulla, ma perfino il vaghissimo background di Jason in Venerdì 13 sembra a confronto un approfondimento psicologico e caratteriale sviluppato da Kieslowski. Anche in Black Christmas dell’assassino non sappiamo nulla, ma il film è costruito diversamente. Qui si tradiscono un po’ le regole del gioco: si imposta un thriller che si sviluppa con una determinata trama e personaggi, poi a caso si piazza un twist finale che racconta tutt’altro. Lo spunto della casa, luogo abitualmente di protezione, che qui diventa una minaccia proprio perché volontariamente lasciata aperta ai visitatori (anche quelli con intenzioni non buone) meritava uno sviluppo molto più accurato, proprio perché a suo modo è una intelligente sovversione degli stereotipi… Forse serviva maggior tempo per revisionare lo script. Magari affidandolo ad un supervisore esperto di horror, che magari avrebbe tolto i vari scricchiolii, battute citofonate, porte chiuse all’improvviso ma quando te lo aspetti, le solite vicine stralunate, i soliti poliziotti che pur avvisati non credono a una parola, gli immancabili telefoni tagliati e perfino la celeberrima frase ”e ora corri”. Cliché immancabili al punto che non se ne può più. In questa ondata di innovazione Netflix fa un passo indietro proponendo un accozzaglia di situazioni che definire banali è poco. Ci piace la cattiveria e il pessimismo che pervade il tutto, fino a regalare finalmente l’anti Happy ending, ma… non basta a farcelo piacere. Diretto a quattro mani da Matt Angel e Suzanne Coote, vede protagonisti Dylan Minnette e Piercey Dalton.
TRAMA: Naomi e Logan Wallace, madre e figlio, dopo la tragica scomparsa del rispettivo marito e padre (e versando in condizioni economiche precarie) accettano di essere ospiti della casa di montagna della sorella di lei fino a una ritrovata stabilità. L’unica particolarità è che l’abitazione è in piena fase “Open House”.*
*: sono case in vendita (spesso abitate) che vengono mostrate, ogni domenica fino alle prime offerte dei potenziali acquirenti, a folti gruppi di sconosciuti accompagnati dall’agente immobiliare di turno.
The Open House poteva quindi essere una occasione per regalare un “Home invasion” particolare, ma purtroppo scade molto presto in una serie di cliché, che vorrebbe evitare proprio per tentare di essere sobrio e con una tensione costruita lentamente, ma invano.
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