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antoniettamasina

FEMME FATALE

Aggiornamento: 5 mar 2022


Ecco un film imperfetto, che trova in questo “piccolo difetto” la sua perfezione. Femme Fatale a volte ammicca al thriller, altre volte al dramma… a volte fa il verso al De Palma di Mission Impossible (e quindi a se stesso) e a volte al cinema dell’est in perfetto stile Kieslowsky.

Prima di andare avanti, entriamo un attimo nel merito della “perfezione nell’arte” e lo facciamo citando Eco: Forse quello che dobbiamo chiarire meglio è il criterio di imperfezione nell’arte. Dove, tanto per cominciare, almeno ai tempi nostri non possiamo più applicare una norma, altrimenti un volto di Picasso sarebbe imperfetto. È che l’opera d’arte pone la norma a se stessa. Quello che cerchiamo nell’opera d’arte non è più la rispondenza a un canone del gusto, ma a un criterio che è interno, dove l’economia e la coerenza formale donano la legge alle proprie parti.

Ancora Diderot scriverà: «Perché un bello schizzo ci affascina più di un quadro compiuto? È che ha più vita, e meno forme. Quando s’introducono le forme, la vita viene meno».

Fatale, in questo film, non è solo la protagonista, una eccezionale Rebecca Romijn (vista in Friends ed X-men) che arriva triplicarsi perfino sullo schermo in personaggi comunque ricchi di sfumature credibilissime… ma il senso vero di FATO e FATALITA’ che chiude in un cerchio modificabile, ma senza uscita, i suoi personaggi.

Il film si apre subito con le immagini di un noir, dove a colei che era considerata la vera FEMME FATALE (Barbara Stanwick) si sovrappongono le immagini riflesse della protagonista, uno dei personaggi femminili più forti ed innovativi del cinema degli ultimi tempi (secondo solo a quello de LA MOGLIE DEL SOLDATO di Jordan e alla NIKITA di Besson) come a definire subito i ruoli e le atmosfere. Arrivista, falsa, spietata… avrà comunque la possibilità di redimersi, ma a quale prezzo?


la trama in breve: La vicenda prende slancio al Festival di Cannes del 2001, alla première del film Est-Ouest (che fu una vera première del Festival nel 1999). Il regista Régis Wargnier e la star del film Sandrine Bonnaire (nel ruolo di loro stessi) sfilano sul tappeto rosso accanto a una bellissima modella bruna, vestita solamente di un gioiello d’oro a forma di serpente e tempestato di diamanti. Laure fingendosi una fotografa riesce ad entrare indisturbata e a sedurre la modella bruna. Nelle toilette del teatro si svolge un conturbante incontro lesbico in cui la ladra cerca di rubare il serpente d’oro. Non tutto fila liscio come pianificato.

Il film non è catalogabile in nessun genere, sicuramente il twist che si presenta esattamente a metà film, può spiazzare a una prima visione, ma ne diventa il punto di forza col tempo. Da segnalare in merito, anche il bizzarro trailer che in soli due minuti racconta tutto il film ad una velocità supersonica, titoli di coda inclusi, e che invita infine coloro che “non han compreso bene il film” di tornare a “vederlo” al cinema.


Il premio oscar Sakamoto sostituisce in questa opera il fidato Pino Donaggio alle musiche, facendo un ottimo lavoro di Hitchcockiana memoria, cara al regista.

Fu Rebecca Romijn a convincerlo che una delle sue amiche, la modella danese Rie Rasmussen, sarebbe stata perfetta. Una volta incontrata, De Palma scritturò subito Rie, soprattutto perché si innamorò del modo in cui camminava… e possiamo ben intuirlo dalle “dedicate” inquadrature con cui ce la sottolinea. Da questo film decolla la carriera di Rie come attrice, e al ritroveremo in molti film compreso Angel-A di Besson.

Gli split screen, marchio di fabbrica del regista, ci sono… anche se stavolta meno presenti e di diverso sapore. Ce li saremmo aspettati all’inizio per raccontare le diverse situazioni che si intrecciano nella complessa scena iniziale… invece De Palma, complice un montaggio eccezionale, riesce a incastrare ogni minima situazione senza perdere mai un colpo, riuscendo come suo solito a farcire il tutto con piccoli dettagli che dan spessore e realismo alle scene anche meno credibili. Il film prende certe strade per abbandonarle, i personaggi sembrano essere, mutano carattere e ruolo, una Femme che visse 2, forse 3 volte, nulla è certo e nulla deve esserlo.

Gli split screen, invece, come sottolineavo, son stavolta meno legati a dare il punto di vista alternativo ai fatti narrati sullo schermo, ma sono invece quasi usati per creare una distesa sensazione di attesa e atmosfera solo nelle scene della piazzetta francese.

Ritroviamo alcuni volti cari al regista, come Gregg Henry, affiancare un ben sfruttato Banderas che comunque si vede rubare la scena dal talento e fascino della Romijn.

Da vedere, e rivedere.


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