Mentre aspettiamo l’avvento di Guillermo Del Toro, grande ammiratore di HPL, che ha appena comunicato d’esser pronto a portare sullo schermo il più importante dei suoi racconti, Le Montagne della Follia, lo sguardo si volge al passato, perché HPL ha comunque avuto, nonostante la scarsità di pellicole dedicate, ottimi estimatori tra i grandi nomi. Tra gli altri, Stuart Gordon, regista dell’indimenticabile Reanimator, di fatto la prima opera di Lovecraft ad essere portata sullo schermo con successo (per essere precisi la prima era La città dei mostri, di Roger Corman, anche se vengono citati come ispirazione sia HPL che E.A. Poe). Il Lovecraft degli orrori ignoti che attendono nell’Altrove dei Grandi Antichi, delle città come Arkham (che non esistono nella realtà) lo ritroviamo nella sua migliore forma nel visionario Il seme della follia, di John Carpenter (1995).
Howard Phillips Lovecraft morì all’ospedale di Providence il 15 marzo 1937, ad appena 47 anni, di tumore all’intestino. Morì solo e povero: nessuno, a parte rari amici della sua città natale, sapeva della sua malattia, e i suoi racconti pubblicati sulle riviste specializzate allora più note (Amazing Stories, Astounding Science Fiction e soprattutto Weird Tales) non gli davano alcuna sicurezza economica. Era, certo, assai noto, fra gli «amici di penna» e i lettori, ma non si può dire che avesse una vera fama letteraria; questa gli giunse solo dopo la morte e col tempo, è aumentata sempre più: oggi il suo nome è conosciuto in tutto il mondo e i suoi scritti tradotti in moltissime lingue. E il primo a meravigliarsi di tutto questo sarebbe stato proprio lui, ipercritico nei confronti di se stesso.
La maggior parte delle opere di Lovecraft sono ispirate dai suoi incubi e forse il continuo e duraturo successo dei suoi racconti si deve proprio a questo collegamento diretto con i simboli dell’inconscio. I suoi «mostri» non è che non siano “rappresentati”, ma non è sul loro aspetto esteriore che si basa la paura che incutono, bensì sulla loro totale estraneità al mondo dell’uomo: sulla indifferenza a esso, sul retaggio di un passato a noi sconosciuto, sul desiderio di riprendere possesso di una loro antica proprietà che è la Terra, sull’annullamento e sulla sospensione delle leggi fisiche che governano il nostro mondo e ci danno sicurezza. Strettamente legato al tema precedente è il pessimismo cupo e angoscioso che permea tutta l’opera di Lovecraft. Nella sua concezione, definita cosmicismo, gli esseri umani sono, nella scacchiera dell’universo, pedine insignificanti sovrastate da potenze sconosciute e terribili. Lovecraft sdegnò in modo pressoché sistematico ogni forma di “lieto fine”; non a caso, nelle sue storie i protagonisti sono spesso antieroi che vanno incontro ad una fine tragica o appaiono solo come spettatori di vicende terrificanti, il cui esito non sono assolutamente in grado di modificare.
La trilogia dell’Apocalisse di John Carpenter è una trilogia tematica di film, che include La cosa, Il signore del male e Il seme della follia. Anche se non ci sono personaggi ricorrenti o legami tra i film, il regista ha spiegato esplicitamente nei suoi commenti DVD e nelle interviste che li considera parti di un corpo di lavoro unico, e si riferisce a questi come “trilogia dell’Apocalisse”.
Il seme della follia è pesantemente influenzato dai lavori di H. P. Lovecraft ma non sviluppa nessuna delle sue storie; più che altro si focalizza sulla relazione di un autore horror come Lovecraft e il suo pubblico. L’omaggio lovecraftiano più rilevante che attraverso un riuscito espediente Carpenter riesce a fare al nostro con il suo Il seme della follia, è però legato all’importanza della parola: Lovecraft era un convinto sostenitore della potenza della parola narrata, elemento facilmente riscontrabile nei suoi racconti, ricchi di grimori e libri proibiti, formule magiche e lingue perdute e oscene. Era attraverso oscuri formulari che le divinità malefiche ritrovavano la strada di casa – attraverso libri che la memoria dovrebbe dimenticare, come il già citato Necronomicon; perché è attraverso le parole che il male antico è sopravvissuto e adesso dorme, in attesa che qualcuno lo risvegli. Usando le giuste parole: Carpenter sfrutta questo aspetto della prosa di Lovecraft, portando avanti in discorso simile e facendo di un libro, il testo dello scrittore protagonista, il veicolo della rinascita dei grandi antichi e delle sue parole il filo conduttore dell’intera storia, addirittura trasformando detto filo in una corda da equilibrista, muovendosi a cavallo tra una dimensione meta-filmica e una meta-letteraria. Il povero John Trent finisce così dentro una storia di Cane, che poi è una storia di Lovecraft, divenuta una storia di Carpenter… e in un cerchio, letteralmente, senza fine e senza scampo.
In questo “cerchio” si sviluppa in modo più pertinente e riuscito il precedessore Il signore del male, e la forza del film sta proprio nella “semplicità” del soggetto di partenza a dispetto della complessità delle materie trattate: l’oggetto d’indagine non è tanto il liquido verde in sé, né il rapporto tra bene e male; quello che Carpenter vuole indagare è il comportamento dell’uomo davanti all’irrazionale e l’atteggiamento di istituzioni come la scienza e la chiesa, davanti alle difficoltà. Cosa sia specificatamente l’altra dimensione che si trova dentro a quello specchio (o come sia scientificamente definibile l’indefinibile) al regista (e allo spettatore) non è dato sapere; l’unica cosa verificabile è come quel muro di convinzioni, per cui l’uomo ha combattuto nel corso di secoli di storia, possa essere abbattuto in un attimo da ciò che non si conosce, facendoci affondare nell’insicurezza.
La cosa è un remake di La cosa da un altro mondo, ed è una versione molto più fedele del racconto Who goes there? che però è terribilmente debitore a LE MONTAGNE DELLA FOLLIA; questo libro infatti può essere considerato il precursore di un genere di racconti su storie di spedizioni alle regioni polari ormai divenute trame classiche. Tra essi possiamo ricordare Ice Station e Artico, ma anche di film più recenti come Alien vs Predator e fumetti e manga come Devilman e Mao Dante.
Basta legger la trama del romanzo di Lovecraft per credere di leggere la trama de LA COSA: “Una spedizione di sedici esploratori si trova in Antartide per condurre alcune ricerche. La storia è raccontata in prima persone da uno di loro, il geologo William Dyer. Il gruppo fa una scoperta incredibile: all’interno di una caverna vengono rinvenuti i resti di alcune creature mostruose, simili a raccapriccianti umanoidi anfibi. Gli esseri, da una prima stima, sembrano essere sepolti in quello stato da milioni di anni e per questo viene dato loro il nome di antichi. Contemporaneamente alla scoperta, un cane e un uomo di nome Gedney scompaiono senza lasciare tracce. Gli altri cani sembrano provare un astio furioso verso le creature, al punto che se potessero ne dilanierebbero le viscere.
I corpi vengono prelevati e custoditi al campo base. Dyer e un giovane ricercatore di nome Danforth salgono a bordo di un piccolo aereo per esplorare l’area intorno alla caverna. Con loro grande sorpresa, sulle montagne della zona scorgono le rovine di antiche città abbandonate (?) e sepolte dalla neve”.
Come in Lovecraft, anche ne La cosa, i protagonisti non sono uomini d’azione. Non devono esserlo. L’effetto disgregativo delle strutture sociali e razionali è più efficace quando i soggetti sono uomini di scienza. Il pilota di elicotteri interpretato da Kurt Russell (Fuga da Los Angeles, Grosso guaio a Chinatown) è l’ultimo a cedere proprio perché uomo d’azione; ma anche lui, alle prese con un nemico non identificabile, finisce per essere risucchiato nel vortice del sospetto e dell’impotenza, mentre il mostro continua ad assimilare i suoi compagni. Carpenter ci spinge verso questi “mostri quasi invisibili”, e verso quegli onirici viaggi in mondi assurdi e violenti, alla ricerca dei mostri nelle immensità dello spazio, che esistono nel fondo dell’animo umano.
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